martedì 18 agosto 2015

GIOVANNI OCCHIPINTI, La liturgia morale dell’essere-nel-mondo come ricerca del “numinoso”


(Saggio critico su  TRASMUTAZIONE)

 Kali-Yuga, ovvero l’età oscura, quella attuale, secondo la tradizione indù, come riporta in nota l’autore nel sonetto posto in limine alla raccolta, tra l’altro eccellentemente presentata da Andrea Guastella, è già una dichiarazione di poetica che anticipa o da cui trae sviluppo questo primo libro di Diego Guadagnino (Trasmutazione, Ragusa 2007): primo libro, ma non opera prima, avendo tutte le caratteristiche, i connotati dell’opera unica.
Ne vedremo il perché strada facendo. Una prima impressione generale evoca l’immagine di uno straordinario cilindro illusionistico dal quale il poeta estrae, uno dopo l’altro la meraviglia di una parola che contiene, forse, il segreto o la magia della poesia vera. Quella che meraviglia, appunto, e colpisce il lettore con la forza di un evento straordinario e lo spinge a chiedersi e a rispondersi che allora è vero che la poesia autentica giunge sempre in punta di piedi, nel silenzio della sorpresa, per sussurrarci all’orecchio che è già tra noi e che non ama il clamore vuoto dei tamburini mediatici che non sanno sfidare il tempo.
Che dire? Ci si trova di fronte a uno spartito sulla pagina oscura del tempo, il nostro, sul quale vanno letti e interpretati i ritmi, le battute, le pause, ma soprattutto il silenzio, che segnano e indicano i tempi dell’avventura umana sulla terra, e cioè le scansioni di una invisibile epopea dell’uomo già contenuta nella leggerezza di un rèfrain quasi onirico, come la stessa musicalità dell’endecasillabo a rima alternata che mantiene le medesime risonanze e sonorità di una “cantilena” che ci giunge da percorsi carsici -da mistero ctonio-, di cui non sempre ci è dato intuire l’origine né il luogo di attraversamento né la meta. Tutto resta ignoto all’occhio eppure il cammino tende a svilupparsi nella polifonia della grande metafora allegorica, nella quale si allude e si compie il significato recondito del gesto quotidiano e storico dell’uomo, ma anche l’antifona sapienziale che ci appartiene e che presiede a questi versi di Guadagnino:

                     La forza offende il sangue e fa precetto
                     graziando solamente la paura
                     che brulica in anfratti e per l’effetto

                     riduce questa terra a sua misura,
                     ne uccide l’acqua e l’erba…e maledetto
                     il cielo di quest’epoca ci oscura.

Si alludeva alla sapienzialità, che si diffonde e dilata su un ritmo interiore e dantesco, per toccare la nostra sensibilità e inquietarci come la veggenza di un oracolo che provenga dalle lontananze ermetiche del mistero. L’oracolo, la claustralità, l’oscurità! Come se uno sguardo nascosto nelle pieghe del tempo e irrivelato, non visto da altri, avesse facoltà di leggere i caratteri di una scrittura esistenziale che sono poi i veri, poveri connotati di un uomo-pinocchio al quale con la pazienza di un “grillo parlante” si ricorda la liturgia dell’errore e la quotidiana necessità dell’avvedutezza, in vista della brevità della vita e onde evitarne gli inganni. Ecco allora che, nella metafora dell’ “orto”, anche un “nespolo” può sostituire l’uomo e allusivamente indicarlo entro lo spazio caduco che dall’autunno va alla primavera:

                          Nell’orto che si disfa a si abbandona
                          al passo dell’autunno non hai sera
                          tu nespolo che infiori la corona
                          dentata di solinga primavera.

   Una quartina in endecasillabi, il cui ritmo rende bene la brevità del destino umano
proprio nel declino dell’ ”orto” e nel passaggio autunno-primavera, e nel quale la primavera vive la solitudine della stagione appunto solitaria e “solinga” – un aggettivo che non nuoce, seppure obsoleto e carducciano: “la solinga primavera”. E continua, il poeta, nella successiva quartina per accompagnare ancora il declino dell’immagine precaria dell’ “orto” nel quale si compie il destino di morte degli esseri:

                             Vegli sull’orto, filo che trapassi
                              il sonno della vita e mi rammenti
                              il sempreverde vigile sui sassi
                              e l’insensato pianto dei viventi.

   In questo bildungsroman o romanzo della coscienza ( la coscienza che aforisticamente parla alla coscienza ovvero la coscienza che parla a se stessa e che spesso procede in aenigmate ), il poeta si fa portavoce di un progetto onesto sull’uso e la trasmutazione della parola in verbum poetico come in un proposito o una richiesta a chissà quale deità della poesia e, per certi versi, come un’invocazione, poiché nel rifiuto della “parola che stupisce” è sottinteso il bisogno di una ricerca espressiva personalissima, coerente e lontana dai rumori di tanta corrente poesia del nulla:

                          Non voglio la parola che stupisce
                          e resta ferma a cosa vile e vana,
                          ma la parola, sì, che scaturisce
                          dal silenzio ch’è cenere di brama.

     La trasmutazione, cui si accennava prima, è anche il passaggio dialettico vita-morte, nel quale si inscrive la condizione dell’essere o dell’esistere e dell’apparire e su questa premessa il poeta costruisce la sua opera. Dalla sua piccola-spelonca platonica, egli è uscito allo scoperto per ricercare la verità al di là e a dispetto delle illusioni che tendono a falsare il valore della vita:

                        e scava sempre più la sua spelonca
                              sperando di vedere opposto il frutto.

   Ma non è tutto. Questa raccolta, sommossa da un’interna forza cinetica, da un ben determinato movimento ad quem, lascia immaginare l’avventura del “viaggio” –perché no?-  dantesco, in cui un nascosto io/tu procede scortato dalla guida della ragione (immagine che potrebbe alludere a un’ombra virgiliana), lungo la turbolenza di un percorso di sofferenza e di fede nella (tras)mutazione, nella metamorfosi che può redimere o condannare:

                       Entra se puoi là dove non c’è porta
                             ivi sciogliendo come per distanza
                             il disegno dell’ombra che ti scorta
                             nella spola tra il pianto e la speranza.

   “Entra se puoi là dove non c’è porta”/(…) : quella infernale della speranza perduta o della non speranza . Qui, i termini lessicali “porta”, “scorta”, “pianto”, “speranza”, configurano la topografia del “luogo”  attraverso cui si sviluppa il “viaggio” di  ricerca, nella fede, della poesia onesta che nel suo cammino si affianca alle turbolenze della vita. Siamo al resoconto assai disincantato sull'esistenza umana: vivere già equivale a soffrire, e forse è illusione la salvezza dell’uomo.
   Quanta inquietudine e quanta pena in questi versi di Guadagnino, protesi all’ “attesa/ che  sconta già l’inutile sentenza/ fingendo la salvezza o la  sorpresa”. Poco oltre  questi versi, c’imbattiamo nella pregnanza di una sinestesia  di bella suggestione: “luce sonora”. Ebbene, essa determina uno scarto dalla dimensione reale dell’essere alla dimensione ”altra” che s’identifica nella fioritura  di una stagione solare come la primavera, che pure vive lo spazio breve del tempo avaro e menzognero, per le disillusioni che  infligge  all’uomo, ingannandone le umane aspettative.
    Tutta la sua  poesia può essere letta come  un racconto sapienziale, ininterrotto, sulla vita dell’uomo soggetta sofferenza per le speranze tradite e gli errori che  tradiscono la coscienza e la offendono. Un parlarsi sottovoce o un leggersi la propria  autobiografia. Lo ribadisco: la coscienza che parla alla coscienza. Qui la forza e la novità della poesia di Guadagnino, che sa fingere la voce lontana della coscienza, che pure è  la  sua,  gli appartiene, allo scopo di raccontarsi le frodi della vita. Di più: si potrebbe parlare di autobiografia in versi, giocata tra i pronomi personali io/tu, afflitti e limitati da un diaframma che  opprime e  acceca la vista ( forse l’ “inferriata” al di là della  quale  “la zolla” “rigoglia d’erbe senza giardiniere”): una cecità tutta terragna che al di là della cortina esistenziale intravede  la luce  di una condizione  di salvezza: “brilla l’immensità della marina”. Versi ariosi e profetici nei quali è racchiusa l’antifona da decifrare  e disvelare, il loro senso,  il segno e il cammino altrimenti occultato dalle insidie dell’esistenza, dalle sue quotidiane tirannie. E’  tutta qui, infatti,  la pregevolezza di questa poesia.: proprio nella velatezza del verso che vive – e trasmette-  il fascino della enigmaticità dell’ “oracolo”, che si avvale anche di elementi cosmici e presocratici come: “sole”, “aria”, “acqua”, “terra”, i quali si elevano oltre le “pareti cieche”, l’ “inferriata”, la “cortina”. Insomma, oltre l’abbaglio  crudele dell’inganno esistenziale. E insisterei  sulla “oscurità” ontologica, tra arcanità, naufragio e Assoluto, celati da un’alchimia ermetica accostabile a talune connotazioni del poema iniziatico, che precede in aenigmate. Qualche volta si ha perfino l’impressione di contemplare l’immobilità della luce nel divenire (come ricerca e gusto) della parola, allorquando essa reca in sé gli umori dei simboli espressi dal linguaggio della meditazione. In senso cabalistico è come se si volesse tracciare un percorso etico verso Dio o come se si cercasse la percezione del “numinoso” nella liturgia morale dell’essere-nel-mondo ma non per il mondo, così da rafforzare o mutare  le  facoltà “buone” in forza interiore: un po’ come nel sogno degli alchimisti è la trasmutatio della materia, e/o materialità, nella rinascita o affermazione della spiritualità. Guadagnino deve avere avuto, o ha, un gusto particolare per  letture  cabalistiche. Lo affermo e me lo chiedo ogniqualvolta mi viene in  mente il De arte cabalistica dell’umanista tedesco (amico di Marsilio Ficino) Johannes  Reuchlin). Si badi a certe sequenze, che contengono quadri o fotogrammi del destino dell’uomo che da sempre soggiace a quelle frodi esistenziali  di cui si dava cenno prima, al “…filo di tristezza che rischiara/la rosa del tuo nulla e la tua  vita.”. Una  “tristezza che rischiara” può essere, alla fine, intesa come  una presa di coscienza  della pochezza dell’uomo e  della strada attraverso cui questa pochezza può condurre. O è, la tristezza, una dichiarazione e accusa del Nihil camuffato nella bellezza quasi eterea  della rosa e nella sua durata breve. Certo, è questo procedere nel labirinto  dell’ambiguità che  accresce e arricchisce il fascino dei versi del poeta di Canicattì (cittadino   dell’area geografica e antropologica siciliana, a dimensione sciasciana, nel senso della sua poetica civile!), inconfondibili e assolutamente  lontani  dal maremagnum dell’omologazione versaiola di tanta trionfante non-poesia!
     La scena illusoria della fantasmagoria dei colori e della luce (vi ritorneremo più in là) finisce a nascondere il dolore dell’uomo chiuso alla luce vera del pensiero ovvero alla tensione metafisica:

                        La chiarità di luce e di colori
                              che vibra nella danza delle forme
                              è la stessa ghirlanda di dolori
                              che si cinge lo spirito e dorme.

  E’ costante, ci pare, il soccorso di una voce virgiliana che si estende a tutto il poemetto e che ilo lettore avverte nell’atto di attraversare gli spazi o luoghi dell’io/tu per ricercare un limbo di verità come approdo finale.  Un luogo “altro”, allora,  dove finalmente la voce  può tacere, contemplando la luce della verità o rivelazione: “ invano cerco libero riposo/ in una trascendenza senza peso”: La ricchezza del lessema “luce” e degli equivalenti sinonimici come “chiarità”, “spiraglio”, “alba”, “aurora”, “sole”, “illuminare”; e poi gli opposti: “oscurare”, “ombra”, “anfratti”, “tenebra”;  sono altrettante chiavi semantiche  che  rivelano la tensione di ricerca di una dimensione interiore e spirituale salvifica e nella quale viene esaltato il ruolo della scrittura che riconduce a questa, assiduamente ricercata, dimensione:

                                   Tu, canto he la strada fai pulita
                                  dall’ombra delle immagini che  vanno,
                                  nell’insonne  crogiuolo della vita
                                  difendi il mio dolore dall’inganno.


C’è, in tutto il libro, un dubbio strisciante,  il senso occulto e occultato di un pessimismo  che  macera e , all’opposto,  il deterrente salvifico: “difendi il mio dolore dall’inganno”. Tale pessimismo diviene concreto nell’attimo di tristezza e/o sofferenza dell’uomo e del poeta che tenta, nel miserabile ed estremo sforzo umano,  il cammino incerto della speranza lontana.  Il “reticolo degli inganni”  è anche un labirinto del tempo nel quale ci si smarrisce, e il cui percorso, incerto e dubbioso, è disseminato  di schegge-errori e di ogni altra  trappola esistenziale.  Siamo di fronte a un lavoro minuzioso, meditato, vissuto, sofferto e sempre attentamente eseguito nella ricca e complessa fucina dell’allegoria, che regge tutta quanta l’invenzione creativa  del poeta intorno al proprio  “racconto”, in cui può celare la  sua stessa biografia, che è anche  biografia altrui, essendo l’io soggettivo in continuo movimento e spostandosi e trasferendosi nella  metafora io-umanità-mondo. Si legga anche in questo senso la simbologia della “spiga” che si risolve nel rapporto analogico  spiga-uomo. Ascoltiamo il poeta nelle due quartine che  seguono:

                         La spiga tra la messe pare viva
                         mentre protesa al sole si matura
                         entrando così docile e non schiva
                         nell’ora in cui verrà la  mietitura.

                         Io vado nella luce che  la svezza
                         e come col suo lume fa la  luna
                         imparo dal suo volto la saggezza
                         che vede agire nuda la fortuna.

   Un cammino aspro e tortuoso (dantesco), scandito  un’ansia di pena cui fa seguito un bisogno di contrirsi  e di riparare alla colpa del proprio io-diviso, che si ostina nella ambiguità e ambivalenza  di “gesti”  comportamentali però rifiutati dall’uomo Guadagnino e, in senso lato, si pensa, dall’uomo:

                      Al prodigo s’alterna in me l’avaro
                      e sfuggono al volere tali giri,
                      più cerco in me da me giusto riparo
                      più spendo in vani giorni i miei respiri.

   Lo scenario si amplia nel “racconto” allegorico(mai viene meno quella sorta di sensibilità esopica che riesce a imprimere ai versi  talor auna intonazione  fiabistico-sapienziale) di Scalo ferroviario, luogo di riflessione sulla sorte del poeta e dell’uomo alle prese  con l’attesa del viaggio, nel microcosmo tipologico di una stazione ferroviaria nel quale si incrociano le strade sconosciute del mondo, ma anche le strade dell’io privato o del microcosmo individuale:

                        Ed io, che non sono mai partito
                              per  avere mancato ogni partenza,
                              da quella sala pure sono uscito
                              e felice ne vivo l’esperienza.

    Tutto questo, ovviamente, appartiene alle considerazioni sui consuntivi fallimentari intorno all’epoca dei sogni di una generazione “con le  suole di vento e i pugni intasca”, che si smarrì dietro a miti  chisciotteschi di gioventù:

                                 Eroici viaggi col sacco a pelo
                                 seguivano fedeli lo stradario
                                 compreso trai confini di quel cielo
                                 che pare terra ed è l’immaginario.
                                                                       (Età fuggiasca)

    Altre volte, come ne Il luogo karmico, è affidato al respiro di un monologo il susseguirsi di domande e risposte, osservazioni e pensieri che si intrecciano e fondono nella meditazione pensosa e dolente dell’esistenza. Ed è una meditazione che conduce alla figura di Adamo, interposta persona attraverso cui il poeta parla all’uomo e di sé: quasi per una  sorta di “trasversalità” che gli consente di oggettivarsi nel mito del primo uomo e accogliere su di sé  gli errori del mondo. Adamo, qui, è l’Incipit di una personale “Genesi” del poeta, nella quale tra l’altro è contemplabile la pena esistenziale che colpirebbe, secondo quel mito, la nostra specie e dove: “Nel commino che  inizia dalla creta/ l’ostacolo si maschera di meta.” Ora, è proprio in questo  “cammino” che ci s’incontra con l’enigma del Tempo  nel quale si assiste al contrapporsi dei personali io/tu, che determinano la dialettica temporale ovvero lo scorrere del Tempo, si capisce anche come inganno quotidiano altrimenti superabile nel concetto morale di libertà, che  è la necessaria  e salvifica eticità della vita.
   Questo nostro poeta  potremmo definirlo, ungarettianamente, uomo di pena: sembra infatti aver conosciuto tutto della vita, grazie forse all’occhio di quella specola di cui s’è detto e dalla quale – anche da “penalista” e uomo di legge – può osservare, guardare dentro alla creatura umana,  accrescendo il suo disincanto verso la vita amata-odiata, ma  sempre finemente osservata, proprio dalle lenti del suo  mal-di-esistenza, come un luogo di inganni, che se fa sentire il fascino delle illusioni è solo per la conferma e la celebrazione del tradimento quotidiano. Ma leggiamo Tempo:

                             Nel vortice dell’essere ch’esponi
                             combattuto dal corpo che mi tiene
                             ricerco tra gli inganni dei tuoi doni
                             la libertà che  sola mi appartiene.

   Bisogna giungere a Degenza, testo tra i più intensi, incisivi e più apertamente e dolentemente sapienziali della raccolta, per scoprire un’altra pagina esistenziale del poeta. Intanto, va precisato che le sezioni nelle quali trova coerente sviluppo  l’opera fluiscono l’una nell’altra e trovano compenetrazione nel sentimento del poeta per la vita ma anche nel sentimento che  il poeta ha di sé. E’ da qui che l’opera trae forza di sviluppo, approfondimento e arricchimento della propria poetica come anche del pensiero poetico dell’autore. Assistiamo, infatti, dopo tante illusioni, a una dichiarazione di fede ricercata, a dispetto degli  interrogativi che  danno ambiguità ai versi di Degenza, che suonano come preghiera  dubbiosa e insieme sconfortantemente ossimorica: un laico , Guadagnino,  alla ricerca di una fede, però subito turbata, nelle sue incertezze, da un atteggiamento mentale agnostico che  quasi lo angustia:

                                     La  malattia
                                     che qui nell’ospedale
                                     mi tiene compagnia,
                                     sfoltisce l’io
                                     per prepararmi a Dio?
                                     o più semplicemente
                                     è una visita del niente?

   E’ un testo che  fa da pendant con il seguente epigramma, ancora più esplicito e pessimistico:

                                   Che fatica,
                                   risalire la china della vita
                                   e scoprire alla fine che la meta
                                   era questo ritrovarsi
                                   alieni sul pianeta.

Eppure il poeta, quando descrive la natura ,concepisce versi intingendo la sua  penna nella policromia di una tavolozza che celebra il tripudio della terra, come a volerne cancellare la terrestrità e ogni peso e, per contro, allietare l’uomo proiettato in dimensioni “altre”, dimentico dell’affanno legato alla macchia d’origine. Gli “azzurri” di Guadagnino sono i colori che danno “corpo” alla metafisica che, non da  ora, lo intriga. Così nelle due terzine del sonetto Autunno:

                           E dentro quest’azzurro così terso
                                 che l’intima visione fa più vera
                                 tu vedi le tue pene andare verso

                                 il corpo stanco e l’anima leggera
                                 dell’uomo silenzioso che  ha disperso
                                 il bene e il male a guadagnar la sera.

    Un ritorno allo stesso motivo, ma più insistito e profondo e ricco è nelle quartine di Girona, in cui il poeta dissemina “tracce” metafisiche attraverso colori come “azzurro”, “giallo”, “verde”, “grigio”; e poi la luce e i silenzi e i suoni: un dispiegarsi di dati visivi e uditivi e di sinestesie ( “ Il canto delle pietre”), che bene definiscono la suggestione  del “luogo”: si consideri la funzione del dato uditivo “silenzio” –per assenza o per  difetto - , che abbonda nei suoi testi. Ebbene, è come se il poeta in questo ”silenzio” – interiore e spirituale- volesse auscultarsi o ascoltare nel suo linguaggio, come qui, ne “I vicoli che  stringono l’azzurro”, la verità racchiusa nel “geroglifico” del “canto delle pietre”, ovvero  delle “figure fantastiche” – lui stesso ce ne avverte in nota- “scolpite sui capitelli del chiostro della cattedrale di Gerona”. Sì, geroglifico messaggio misterioso e intellegibile, che racchiude il segreto metafisico che  da sempre inquieta:

                         Qui senti più che viva sotto il velo
                         dipinto delle forme la ricerca
                         del luogo  di una gnosi in cui vanisca
                         la pena che in segreto ti cesella.

      Ecco, il cruccio e la pena che ci scavano dentro: una sorta di damnatio a cui ci condanna la terrestrità. Tutto questo, in ben altro modulo espressivo, è già presente a indicare l’ insistenza  martellante del cruccio, nel breve testo Degenza, dove la “malattia” potrebbe   metaforicamente rappresentare il malessere esistenziale del poeta, combattuto tra agnosticismo e gnosi.
    Questi di Diego Guadagnino sono versi  che grondano terra e fango, ma per elevarsi a dimensione  dello spirito, così da celebrare la forza della  spiritualità dell’essere  umano. Poesia di grande levità, sommessa  e toccante pur nel peso di tanta zavorra esistenziale che la costringe al destino della terra. Così in Centuria:

                                 Giuoco di sillabe che muore
                                 nella segreta trasparenza
                                 dell’ultimo suo senso.

     Noi  continueremo ad auscultare la nostra  coscienza nei battiti vivi di questi versi, sintonici con l’enigma “dell’ultimo suo senso”, ma anche con tutta quanta l’alta poesia di Diego. Questa e quella che verrà.

Punta Braccetto/Ragusa, agosto-settembre 2007
                                              
                                                                                 Giovanni Occhipinti
















































     







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