mercoledì 20 novembre 2013

DIEGO GUADAGNINO, Il barone Lombardo, un uomo



Con questa sua ultima fatica dedicata al barone Lombardo, Gaetano Augello offre occasione  di riflettere su un canicattinese illustre, al quale fino adesso è toccato lo strano (e ingrato, considerando le grandi cose che ha fatto per la nostra città) destino di una scarsa attenzione  da parte di ricercatori e studiosi locali.

     La Sicilia, si sa, è terra di contrasti che la storia traduce in contraddizioni. I primi   appartengono alla natura, dove al paesaggio mutevole e ridente della costa si contrappone l’austera aridità dell’entroterra; le seconde brulicano nelle vicende umane, covano nell’intimità dei siciliani e confliggono nella cultura che le esprime.
    Così, nell’accostarsi alla figura del barone Francesco Lombardo  non si può non cogliervi  la vivente negazione di quello che sostiene Giuseppe Tomasi di Lampedusa in uno dei dialoghi più celebri del suo romanzo:  quello tra don Fabrizio e Chevalley. “In Sicilia non importa  far male  o  far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’…Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare…” Questa è l’idea madre da cui nascono tutte le altre convinzioni  del Principe Salina. Ma basta  guardare nella vita  del nostro barone  per rendersi conto che l’autore del Gattopardo ha indebitamente e indistintamente attribuito ai siciliani quel misto di fatalismo musulmano e di stanchezza aristocratica che la sua casta aveva portato a sistema di pensiero.
     Il barone  Lombardo  non solo  elesse il ‘fare’ a primaria norma igienica di vita, ma lungi dal patirne  astio, condanna o disapprovazione ne ricevette consenso unanime che diventò plauso in tantissime occasioni. Le foto dei suoi funerali ritraggono un fiume di folla enorme, come non se ne vede in nessun altro analogo documento di memorabili eventi canicattinesi. Dietro il feretro non c’erano soltanto i suoi pari  ma tutta una popolazione, che lui vivo era stata raggiunta e beneficiata dal suo operare .
     Fino a qualche decennio fa era ancora possibile ascoltare  dalla viva voce  dei contadini le innovazioni apportate da don Ciciu Lummardu nella tecnica e negli usi agricoli locali. Prima di lui, raccontavano i vecchi, la coltivazione delle graminacee (frumento, orzo), che dava alla terra l’annuale riposo, si alternava col pascolo; egli interruppe tale rotazione sostituendo al pascolo la semina delle leguminose, tra le quali prevalevano le fave.
   E c’era chi lo ricordava nel giorno della transumanza del bestiame verso le terre calde della marina, verso i feudi di Montallegro e Siculiana. Si piazzava con la carrozza davanti la chiesa di san Diego e, come un generale che assiste alla parata,  per ore  guardava  transitare greggi e armenti incampanati, cani, asini e muli carichi di masserizie, accompagnati da vaccari, pecorai, curatoli, garzoni, zammatari…gente con cui aveva un rapporto diretto e spesso anche confidenziale.
     Soleva assumere i dipendenti personalmente. Si racconta di un jurnataru al quale chiese se sapesse diserbare grano, e quello rispose pronto: “La ma zappuddra si chiama cerba, ca scippa lu lavuri e lassa l’erba”. E lui, apprezzando la paradossale referenza : ”Bravo, allora puoi venire da me.” Con i contadini manteneva un rapporto libero da pregiudizi  e nel suo palazzo riceveva chiunque senza badare a distinzioni sociali, dimostrando un’apertura piuttosto eccezionale per l’epoca,  e  che oggi ci ricorda un altro barone, suo contemporaneo, che osò la stessa simpatia senza  annacquature di paternalismo verso il mondo contadino: Serafino Amabile Guastella, il poeta di Chiaramonte Gulfi che passò la  vita a raccogliere canti e parità morali dei villani della contea di Modica.
      
    Se aveva un’intolleranza era di non sopportare la vista di gente oziosa o disoccupata. Convinto che il lavoro fosse il mezzo migliore per tenere gagliarda un’economia ne escogitava di tutti i generi. Per impedire che i braccianti sedessero nei periodi in cui non incombeva la semina o il raccolto, li metteva a radunare pietre nei terreni e ad alzare muri a secco ( li sipala); oppure, dopo il raccolto faceva ammassare le stoppie per trasformarle in concime. Si evitava così il famigerato ricorso al fuoco che quasi sempre danneggia le colture d’alto fusto. A simili attività voleva alludere un articolo di giornale nelle immediatezze della morte, scrivendo che “in epoche tristi di disoccupazione e di miseria, il Barone Lombardo trovava modo di occupare la povera gente nei più svariati e meno urgenti lavori della sua vasta azienda.”
    Praticò largamente il paraspolo, antico istituto agrario (dal greco bizantino parà spòros) mediante il quale  si concedeva un appezzamento di terreno già seminato a un contadino. Nella maggior parte dei casi si trattava di contadino povero, che non possedeva bestie e compiva  da sé  le successive lavorazioni fino al prodotto finale (F. Renda, Bernardo Tanucci e i beni dei gesuiti in Sicilia, Roma, 1974, p. 113). Tra le forme di contratto agricolo, questa risultava una delle più vantaggiose per il conduttore, che non pagava gravate d’interessi le spese anticipate per le sementi. Si aggiunga che la gestione in proprio dell’azienda eliminava l’intermediazione parassitaria del gabellotto, detestabile figura di cui si avvaleva gran parte della nobiltà terriera per non distogliersi da una vita  goduta nell’ozio più rigoroso.
   Nella ricerca di nuove forme di collaborazione tra capitale fondiario e lavoro, non mancò d’incoraggiare le cooperative contadine. “Il terreno ce lo diede in affitto il barone Lombardo, che è una persona  squisita oltre ogni dire, e che ci anticipò anche il denaro” riferisce il socio di una cooperativa, in una dichiarazione raccolta dall’inchiesta Lorenzoni (G. Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e della Sicilia, vol. IV, Roma,1910).
  
     A osservare con attenzione l’immagine più nota che abbiamo di lui, il ritratto uscito dallo studio fotografico canicattinese Di Salvo Marsaglia poco prima della morte, si resta colpiti dalla limpidezza dello sguardo; non traspaiono astratte lontananze, non ci sono né Pirandello né D’Annunzio in quegli occhi,  ma la pacata concretezza di chi nel confronto con la realtà di tutti i giorni ha prosciugato dentro di sé la marionetta umorale. Si ha la sensazione di trovarsi di fronte  a uno di quegli individui “capaci di fare” che Gurdjieff  avrebbe aggiunto al suo capitolo di “uomini straordinari”. Il titolo baronale gli veniva tributato dal popolo spontaneamente, senza che gli appartenesse  di diritto, e senza che lui ci tenesse più di tanto, se è vero che non brigò mai per comprarlo, come facevano taluni che possedevano abbastanza feudi da giustificare la compravendita del blasone. “Modello ai patrizi e rimprovero insieme” avrebbe scritto di lui con efficacia epigrammatica il Punturo nel dedicargli un suo libro sulle decime ecclesiastiche. Un giudizio, questo, che  l’inchiesta Lorenzoni sembra far proprio quando afferma  che“ Il barone Lombardo, modesto e forte tipo di gentiluomo di campagna, ha scritto una pagina gloriosa nella storia dell’agricoltura siciliana, e il suo esempio dovrebbe servire da sprone a molti altri, che seggono comodamente in città mentre nelle loro terre ci sarebbe tutto un mondo da rifare.”
      Era nato borghese, e borghese rimase con la coerenza etica imposta da tale condizione; una coerenza cresciuta sui valori della proprietà mai disgiunti dalla responsabilità sociale che comporta.  Aveva succhiato tali principi dalla madre,  Francesca Gangitano, donna di forte tempra e di energiche virtù, vissuta oltre un secolo, tenendo con sé le chiavi del governo domestico fino al giorno del suo centesimo compleanno. Nell’elogio funebre, stilato con la pompa che l’autore, tale Vincenzo Settimio De Gandolfo,  doveva ritenere d’obbligo al cospetto della sbigottita maestà  della morte, viene  definita “apprezzatrice dei beni economici; ma elargitrice magnanima della sua fortuna; amica; consigliera; Filosofa; Teologhessa” -due titoli, quest’ultimi, che oggi suonano indizio d’una propensione intellettuale che non dovette passare inosservata. Dei tre figli che nacquero da lei, solo lui le sopravvisse, e per meno di due anni; si può dire dunque  che  donna Francesca Gangitano vide con intatta padronanza di pensiero il dispiegarsi di quasi tutta la vita dell’illustre figlio.

  Se dalla madre aveva ricevuto il senso della vigile amministrazione improntata a precetti cristiani, un’altra figura contribuì a dare consapevolezza democratica alla sua indole pragmatica : fu quella di Giovanni Guarino Amella. La fortuna, nell’accezione di caso, di evento estraneo ai calcoli del desiderio o della volontà, glielo fece incontrare nelle vesti di volenteroso studente bisognevole di sostegno per proseguire negli studi.  
     Il padre di Guarino Amella, don Calogero Guarino, era un aromatario ( così si chiamavano allora i farmacisti), nativo di Campofranco, che trasferitosi a San’Angelo Muxaro, per occuparsi degli interessi del Duca delle Grazie, vi aveva conosciuto Giuseppa Amella, sorella di don Marco, arciprete del paese. L’aveva sposata e si era stabilito definitivamente nel posto. Giovanni, per non lasciare estinguere il ramo materno, volle aggiungere al proprio cognome quello della madre.
   Quando il barone Lombardo accetta di sostenerlo fino alla laurea, pur conoscendo la vocazione progressista del giovane non sa quali potenzialità intellettuali urgono nel suo animo. Guarino Amella, che partecipa al movimento dei Fasci, proclamato lo stato d’assedio da Crispi, diventa un latitante che trova rifugio e protezione nei possedimenti del barone. Sono anni in cui la Sicilia è attraversata da ondate di rivendicazioni popolari; operai e contadini cominciano a organizzarsi; la plebe diventa classe con una sua coscienza politica, con i suoi partiti e una cultura che ripensa il mondo alla luce delle nuove idee di riscatto. E Giovannino vive nel crogiolo di quella trasformazione sociale. Ci si sarebbe aspettati che il ricco proprietario terriero, per “ideologia di classe”, in realtà un coagulo di interessi materiali camuffati da “idee”, prendesse le distanze dal giovane che mette in discussione l’ordine vigente. Invece tra i due nascerà presto una perfetta simbiosi operativa. Non si sa con che occhio i ricchi di allora vedessero questa opzione filantropica del barone. Ma, tanto per darne un’idea, trasportando il fatto a tempi più vicini, era come se un agrario si fosse messo a mantenere agli studi un militante di Lotta Continua. E questo dà cognizione e misura di quanto egli fosse, come l’avrebbe definito in seguito Paolo D’Antoni,  “uomo di larghi sensi liberali e spirito schiettamente democratico”.
     In don Giovannino, così egli chiamò il suo pupillo per tutta la vita, trovò il collaboratore che lo rappresentava presso ministri e parlamentari della capitale, tenendolo puntualmente  aggiornato sugli esiti delle  missioni  affidategli. Esiste una fitta corrispondenza con  lettere  spedite  da Palermo, da Roma, perfino da Parigi, da dove il giovane  lo relaziona sull’esposizione universale del 1900: “ …se si vogliono “ gli scrive “non dico osservare ma soltanto vedere tutte le manifestazioni dell’ingegno e delle attività umane  esposte, allora non c’è tempo che basti…” E considerando l’interesse del barone per le novità tecnologiche da impiegare in agricoltura, aggiungeva “Il visitatore rimane spesso sbigottito innanzi alle macchine che con straordinaria precisone e perfezione compiono  i più complicati e difficili lavori”. Ma altre ce ne sono, di lettere, in cui don Giovannino lo consiglia sul comportamento da tenere verso i contadini, che “qualcun altro vorrebbe attrarre” nella propria sfera d’influenza.
    E’ stato scritto che era un conservatore. Ma si tratta  di un giudizio non convalidato da nulla nel concreto. Il giornale L’Ora di Palermo, nel dare notizia della sua morte , il 22 gennaio 1910, scriveva  che “Sebbene fosse un rigido conservatore, pure non disdegnò di accomunarsi agli uomini di parte popolare, a sostenerli gagliardamente, perché l’Isola nostra avesse una più luminosa dimane.” E’ una affermazione intrinsecamente ossimorica, illogica, e soprattutto in conflitto con quello che riscontriamo nei fatti e nelle carte che parlano di lui. Come  faceva a essere un rigido conservatore e nello stesso fare politica per interposta persona attraverso Giovanni Guarino Amella?  Definirlo tale sarà stato certamente un errore dell’estensore del coccodrillo, dovuto a disinformazione e al facile automatismo ricco=conservatore. E sarà bastato che qualche “storico”, distratto e irriflessivo, copiasse di peso quella frase, per consegnare alla memoria una simile stonatura nel tessuto della sua reale biografia. D’altronde la politica  è azione  pubblica, è praxis  sotto gli occhi di tutti,  e perciò non può dare adito a equivoci così macroscopici e grossolani.

   Preferendo dedicarsi all’amministrazione della sua azienda, non fece politica nell’accezione corrente della parola,  non occupò mai uno spazio attivo all’interno di un partito. Se si espose in prima persona, fu in due battaglie interpartitiche  e di stampo decisamente laico e riformatore: quella per la revisione delle circoscrizioni territoriali e quella per l’abolizione delle decime regie siciliane.
    La prima questione aveva risvolti pratici così onerosi da essere molto sentita dagli abitanti di tutti quei comuni  vessati  da un assetto amministrativo che nella sostanza lasciava in piedi il dominio delle città demaniali sui quei centri che da semplici agglomerati feudali si erano evoluti in città fiorenti e popolose. Tale era, per esempio, il rapporto tra Naro, città demaniale, battezzata la Fulgentissina da Federico II, ma rimasta demograficamente atrofizzata, e Canicattì, diventata l’epicentro dello sviluppo economico della zona con un incremento demografico che aveva raggiunto i 25.000 abitanti nel 1897, rispetto ai 10.000 di Naro. I rispettivi territori però restavano di cinquemila ettari di Canicattì contro i quattordicimila di Naro. La conseguenza di tale situazione era che i canicattinesi versavano alle casse del  comune limitrofo tributi che non avevano ritorno sul loro territorio. Di fronte alla tenacia  conservatrice dei comuni privilegiati, il barone Lombardo, nel 1904, tessendo una rapida e fitta rete di rapporti con i sindaci dei comuni interessati alla revisione, promosse la nascita della Lega Siciliana per la Riforma delle circoscrizioni Territoriali. Nell’assemblea costituente, tenutasi nel salone del suo palazzo di fronte la Matrice, venne eletto presidente per acclamazione.  In tale veste pochi mesi dopo indisse un convegno a Roma al quale parteciparono i sindaci dei “150 comuni diseredati” e da cui partì una mobilitazione che coinvolse tutta l’Isola con una carica  motivazionale  che dà idea non approssimativa del suo carisma. Il comitato d’agitazione di Mirabella Imbaccari uscì con un comunicato in cui tra l’altro si leggeva “ Il nobile e grandioso appello lanciato dal Barone Lombardo, meritatissimo Presidente della nostra Lega, ha destato, in ogni cuore che soffre, il più grande entusiasmo patriottico. Da tutti, massime dai poveri tartassati di miserie e di tasse, volano caldi voti per la soluzione  del barbarico sistema e generose benedizioni partono per la veneranda figura del  Presidente e per i suoi generosi sacrifizi.”
   Di vera e propria ovazione invece si può parlare in occasione del suo rientro a Canicattì da Roma, dove in qualità di presidente della Lega contro le regie decime  siciliane s’era incontrato con vari ministri e con Giolitti, per esporre le ragioni  che legittimavano la chiesta abolizione del balzello.
      Il consiglio comunale di Canicattì, nella seduta del 26 gennaio 1905, volle mettere a verbale “un plauso all’opera titanica dell’Illustrissimo Patriotta Signor Barone Francesco Lombardo Gangitano a che la proposta di legge  di abolizione delle Decime Agrigentine sia discussa ed ammessa dal Parlamento, recando grandi vantaggi all’agricoltura della nostra provincia.” Esiste, presso la Fondazione Guarino Amella, che conserva migliaia di documenti che lo riguardano, un opuscoletto, un “omaggio” scritto, che in quell’occasione  la cittadinanza gli tributò per iniziativa del “giovine  Antonio Greco fu Calogero”; esso contiene una lettera solenne nel saluto: “ Salve, o illustre filantropo…Salve, o generoso! Accogliete  oggi l’omaggio dei vostri concittadini, senza distinzione di classe e di partito, dal ricco al povero, dal sacerdote al socialista…”  Segue un sonetto ( sicuramente parto della fantasia del promotore) in cui il poeta impiega le prime due quartine per rivolgersi a Febo immortale chiedendogli cosa mai stia succedendo alla sua dorata cetra da essere  percorsa da così tanta vita. Nelle  terzine successive  il divo Apollo gliene spiega la ragione ed è “che in quest’almo giorno/ dall’alma Roma eccelso e caro duce/ qui sen ritorna in dolce suo soggiorno.” Lettera e sonetto sono seguiti da una raccolta di firme (che Augello ha contate e dice che sono 190) suddivise per settori: il Clero, Civili, Rappresentanza delle Scuole, Rappresentanza della Società, Cittadini. Retorica a parte, i documenti provano la popolarità e l’affetto di cui godeva il nostro barone tra la gente di Canicattì in un’epoca in cui di simpatia per i ricchi sappiamo ne circolasse più niente che poca.

   Quella contro le decime regie siciliane fu una lotta lunga e costellata di dotti richiami storici e giuridici. Materia del contendere erano le decime dovute alla mensa vescovile  agrigentina dai proprietari di terreni della diocesi. Veramente erano state abolite con decreto garibaldino dell'ottobre 1860, ma quando non c’è volontà di applicare una legge si ricorre alla sua interpretazione, e così la curia di Girgenti era riuscita a ottenere alcune sentenze che dichiaravano la decima non inclusa nelle disposizioni ablative. Da lì era nata un’annosa querelle in cui si vedevano i sostenitori da un lato e i gli oppositori dall’altro darsi reciprocamente del latifondista.  “Quest’onere oggi non grava che su pochi gaudenti, su pochi latifondisti, vera cancrena dell’agricoltura…” scriveva un periodico diocesano,  ma da parte opposta si rispondeva che il vero latifondista era Monsignor Vescovo che si ostinava  ad esigere il pagamento della decima da oltre 50 mila soggetti sparsi per tutta la diocesi. Erano forse tutti latifondisti?  La battaglia si estese presto all’intero territorio della Sicilia, unica regione in cui il tributo, abolito di fatto e di diritto nel resto del Paese, lo si voleva ancora in vigore. Il barone Lombardo, eletto presidente della Lega contro le regie decime siciliane, divenne facile bersaglio di quanti accusavano il movimento di essere ispirato da grossi feudatari. “A migliore intelligenza del dietroscena possiamo assicurare che il presidente del Comitato contro le decime , il barone Lombardo è uno dei più grossi feudatari, gravato dalle decime per più di 20000 lire…”  si ribadiva da parte ecclesiastica. Ed era evidenza che non poteva essere negata. Come oggi  non si può negare  che il barone aveva deciso d’impegnarsi  in quella battaglia dopo che gli era stato notificato l’atto di interpello e messa in mora per il pagamento delle decime “di frumento e orzo” dovute, con gli arretrati degli ultimi cinque anni, e per i  feudi ricadenti in territorio di Caltanissetta, Serradifalco e Sommatino. L’accusa restava però un’argomentazione  propagandistica di supposta facile presa emotiva, perché la resistenza includeva tanti piccoli proprietari e per di più anche cattolici sinceri. In tale eterogenea composizione del movimento il barone Lombardo occupava una posizione laica, eleggendo suo portavoce e segretario Giovanni Guarino Amella che ne sosteneva le ragioni attraverso vari  articoli su giornali finanziati dallo stesso barone.

   L’atteggiamento del barone Lombardo nei confronti della religione fu quello del borghese laico e illuminato che si pone al di là dei precetti della dottrina cattolica  “ non per debolezza della carne; ma perché è convinto di essere dalla parte della ragione. Sa quel che vuole, perciò è in diritto di volerlo. Anch’egli vuole l’ordine, un ordine nuovo, che nascerà dagli sforzi del suo ceto e che la Chiesa non potrà riconoscere.” (B. Groethuysen, Origini dello spirito borghese in Francia, Torino, 1949, p.315). D’altronde anche nell’occasione della messa all’asta dei beni ecclesiastici confiscati dopo l’unità d’Italia, egli, come tanti altri ricchi proprietari terrieri dell’epoca, vi partecipò e comprò regolarmente, senza porsi problemi di coscienza e senza essere minimamente toccato dalle voci di scomunica messe in giro con lo scopo evidente di scoraggiare la partecipazione alle vendite pubbliche. La cospicua donazione fatta nel 1909 all’ospedale di Canicattì, che oggi porta il suo nome, va letta all’interno di quell’umanitarismo laico e liberale che sollecitava le coscienze delle classi colte europee di allora. Nato il 14 febbraio 1835, egli è figlio di quel periodo che lo storico inglese Eric Hobsbawm  ha definito “il trionfo della borghesia”. Le sue convinzioni di uomo e di imprenditore  sono impregnate di sano ottimismo, la sua azienda si avvale di quanto la tecnologia più avanzata  possa offrire per l’efficienza nei lavori e la maggiore resa dei prodotti. La sua vita sembra il compendio completo e riuscito del vangelo filosofico di Auguste Comte: c’è la fede nella scienza, il culto del progresso, la fiducia nell’uomo, la pratica della solidarietà, la vocazione filantropica. Sotto la luce della costellazione positivista appare redento anche l’ancestrale senso della proprietà che si porta dentro e che diventa strumento  di promozione del  benessere comune. Una distanza siderale divide  quest’uomo dalla cupa  ossessione della roba che proprio in quegli anni, a centoquaranta  chilometri da Canicattì, va descrivendo in romanzi e novelle  un altro siciliano che si chiama Giovanni Verga. Altro siciliano, altra contraddizione, è il caso di dire.
   L’impegno pubblico per il barone Lombardo, proprio in virtù dell’interesse personale che lo spingeva, è stato in realtà una secondaria propaggine della sua attività principale, che rimase quella di imprenditore agricolo.  Dalla zootecnia, dove si distinse per l’allevamento dei cavalli,  all’enologia , agli oleifici, alla coltivazione razionale del mandorlo, alla costruzione di case coloniche per i contadini, egli non tralasciò nulla che un agricoltore non potesse compiere o perfezionare nell’esercizio delle sue funzioni. La sua azienda veniva citata e additata come modello d’avanguardia in tutto il Mezzogiorno. “La fortuna lasciata dal Barone Lombardo” scrisse La Provincia Nuova alla sua morte, avvenuta il 21 gennaio 1910, “ è in gran parte opera sua, della sua non comune attività, dei metodi moderni di coltura…”

     A seconda del livello evolutivo di chi la possiede, esistono diverse categorie di ricchezza. C’è  quella del bruto cumulo di energia, che  nel  più volenteroso sforzo finalistico  diventa mezzo  per  fare altra ricchezza; e c’è quella che fiorisce nel bello gratuito dell’arte. Il Rinascimento fu un miracolo dello spirito prodotto e  assecondato da questo tipo di ricchezza, al punto che il committente di un’opera ne era considerato il padre più dello stesso artista. Il barone Lombardo ebbe sensibilità estetica ed ebbe anche modo di mostrarla traducendola  in mecenatismo, il mecenatismo della committenza. Opera di questa sua intraprendente sensibilità è la villa più significativa che la classe aristocratico-borghese abbia dato al nostro territorio: Villa Firriato. Realizzata nel 1897 dall’architetto Ernesto Basile, che gli fu amico personale, per la cinta collinare di Bardaro che, vicinissima, gli fa da sfondo a est e la visione in lontananza dei monti di Sutera e Cammarata, sulla quale s’apre a sud, per la perfetta armonia tra le forme lineari in pietra e il giardino che le circonda, rimane un gioiello suggestivo e negletto del liberty in Sicilia.
                                           
 Tranne Villa Firriato,  fino a qualche anno fa  saccheggiata dalle incursioni  continue di vandali,  e da poco  parzialmente riattivata, di quello che lui ha realizzato, dalle strade alle masserie alle case coloniche,  oggi non restano che ruderi  su cui continua ad accanirsi l’inclemenza del tempo e dell’incuria .  I suoi successori  hanno preferito ubbidire alle massime del Principe Salina, secondo cui “…il peccato che noi siciliani non perdoniamo è semplicemente quello di ‘fare’ ”; e così loro hanno scelto di non peccare. La Sicilia, lo si sa, è terra di contrasti…
  Ma la figura del barone Lombardo si profila così nettamente scolpita da una concezione positiva e pragmatica del vivere che non può non indurre a rivisitare i fondamentali della cultura siciliana. Bisogna subito dire che la chiamata in causa dei suoi eredi o successori in relazione allo stato di abbandono dei suoi beni, non implica necessariamente l’identificazione di una responsabilità di carattere personale. Troppo semplice sarebbe chiudere la nostra riflessione entro tali termini. In Sicilia i trapassi bruschi e repentini tra eros e thanatos, tra cosmos e caos, tra splendore  e miseria  sono all’ordine del giorno, scandiscono un destino territoriale che come una vecchia pendola oscilla tra il sì della luce  e il no dell’ombra. Le terre del barone oggi sono un’isola di erbacce e di  squallore in mezzo a una campagna che nelle sue continue  metamorfosi colturali ha fatto confluire fiumi di denaro su Canicattì. Ma le trasformazioni intensive  si sono arrestate sul confine di quei feudi che ora sembrano scontare l’antica magnificenza in una specie d’infernale contrappasso.  Ed è una condanna che profusamente trova il suo riscontro teorico nei modi o nei sistemi in cui la Sicilia è stata pensata negli ultimi centocinquant’anni. Dall’unità d’Italia in su i grandi romanzieri siciliani sono stati i cantori dei vinti, gli analisti creativi di una sconfitta che da storica è diventata antropologica, se non metafisica. E dire che il movimento dei Fasci era stato salutato da Antonio Labriola  come il più grande fatto del socialismo italiano…
    Durante la stesura di queste note, compulsando l’inchiesta Lorenzoni, ci siamo  imbattuti in una pagina, senz’altro lirica, ma soprattutto presaga delle rappresentazioni che dell’isola daranno artisti e scrittori successivi.   
    “Il popolo siciliano” scrive Giovanni Lorenzoni “ offre materia di molta meditazione all’artista ed al filosofo. La grandiosità della natura in cui vive, ridentissima in alcune parti, sublime e tremenda in altre; qua fertile e svariata, là squallida e monotona; le forze cieche che incombono, e pur riposando minacciano; l’Etna e le sue eruzioni; il terremoto e il maremoto; la prolungata siccità, le alluvioni ed i temporali  devastatori; la violenza dello snervante vento sciroccale: tutti questi aspetti e queste forze della natura, debbono imprimere all’anima sua uno stupore d’ammirazione che si espande in un lirismo immaginoso ed appassionato, ed insieme uno sgomento rassegnato e fatalistico, perché ben comprende che contro queste forze di tanto a lui superiori, pressoché vana deve riuscire ogni opera sua.
   “La storia travagliata e tragica della Regione s’aggiunge alla natura per fare dell’anima sua uno stromento sensibilissimo e apparentemente contraddittorio perché complicato: pronto all’esaltazione ed alla depressione, ossequiente all’autorità ed insieme ribelle, orgoglioso verso tutti , ma devoto fino al sacrifizio verso chi ama, sospettoso per necessità di difesa, facile alla protesta ma più facile alla rassegnazione, perché alieno da ogni azione continuata e paziente; individualista, solitario, chiuso, fieramente amante della famiglia, degli amici e dell’Isola sua.”
    La notazione che va fatta a margine di questa pagina è che, sebbene uscita dalla penna di un continentale, tanti siciliani vi si sono rispecchiati, se non proprio in essa, di sicuro nelle immagini e nelle idee che la fanno così viva. Il filosofo Manlio Sgalambro, uno tra i più prossimi nel tempo, ci dato una sua Teoria della Sicilia dove tra l’altro dice:

 Per ogni isola vale la metafora della nave:
 vi incombe il naufragio.
Il sentimento insulare
è un oscuro impulso verso l’estinzione.
L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere
rivela l’impossibilità di sfuggirvi
come sentimento primordiale.
La volontà di sparire
è l’essenza esoterica della Sicilia.
 
   Essere contraddittori non è una colpa. Specialmente quando si vive in una realtà travagliata da forze opposte come quella siciliana. Ma se queste forze hanno reso possibile un uomo come Francesco Lombardo, allora possiamo ben sperare di poter resistere anche alla tentazione del nulla.    

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